I numeri parlano chiaro. Secondo il Fondo Monetario Internazionale lo scorso anno il PIL del Marocco è cresciuto del 5,1%, più del 4,9% dell’Africa Subsahariana e dell’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa con il 2,1%. 

 

Sempre dati del FMI alla mano, la disoccupazione in Marocco è calata a partire dal 2000, passando dal 13,4% al 9% del 2012; l’economia può contare su una manodopera giovane - il 40% della popolazione ha meno di 25 anni - sulla stabilità politica assicurata dal potere di velluto di Re Mohammed VI e sulla condivisione dello stesso cielo europeo che oggi, insieme a una normativa fatta apposta per richiamare capitali esteri, attrae molta industria dal nord del Mediterraneo. 



Ma cosa c’entra con la Biennale di Marrakech?
Facciamo un passo avanti.



Nel 2011 in Marocco sono transitati quasi dieci milioni di turisti, la previsione per i prossimi anni ne è il raddoppio netto. Nonostante i tre milioni di artigiani nel paese, il mercato è invaso dalla Cina e il Marocco, come molti paesi del Nord Africa, sconta la posizione vista Mediterraneo con un'alta percentuale di immigrazione dai paesi subsahariani. Intanto il tasso di scolarizzazione è ancora basso, a libertà di stampa ed espressione il Marocco si trova al 149° posto del rating mondiale - secondo la classifica Freedom of the press 2013 - e il Marocco rimane un paese di emigrazione. Ce lo dice una stima dell’International Organization of Migration: le rimesse degli emigrati rappresentano il 7% del PIL interno.



Ma cosa c’entra tutto questo con la Biennale di Marrakech?
C’entra, se si vuol capire il contesto in cui si forma la quinta edizione di questa biennale africana e come sia possibile rispondere alla domanda, affatto semplice, da cui prende le mosse: Where are we now? A che punto siamo? 
C’entra, se non ci si vuole accontentare dell’indiscusso fascino della città rossa, di essere come quei viaggiatori senza cuore di cui parla Elias Canetti ne Le voci di MarrakechQuando si viaggia...si osserva, si ascolta, ci si entusiasma per le cose più atroci solo perché sono nuove. I buoni viaggiatori sono gente senza cuore

 


C’entra, perché le biennali nascono all’incrocio di istanze locali e scambi internazionali e dopo l’edizione del 2012 in cui molti la criticarono di essere un caravanserraglio alieno, la Biennale di Marrakech doveva riscoprirsi marocchina. Non è un caso che in Where are we now, si intreccino molte questioni legate all’eredità culturale dello stato nordafricano, alle contraddizioni tra la retorica della tradizione e il discorso della modernità. Non è un caso che in questa edizione diretta da Alya Sebti e curata, per le arti visive, da Hicham Khalidi lo spazio della piazza - jemaa - come luogo di dialogo e le dinamiche dell’incontro siano centrali a molti dei progetti commissionati appositamente dalla Biennale. 


Basti pensare all’appuntamento quotidiano in Piazza Jemaa El Fna con le lezione di geometria di Souvenir, Lecon de géométrie (2014) di Saadane Afif. Al calar del sole, quella che sembra una tv digitale ante litteram si sintonizza su uno dei mille canali notturni disponibili: tra un serpente stordito, un incontro di pugilato o un concerto di musica gnawa, potrà capitare di assistere a una lezione che parla il linguaggio universale della matematica. Mai visto tante persone così assorte e curiose di conoscere come va a finire la storia del cerchio. In quell’area della narrazione condivisa, la matematica avvicina la Marrakech reale a noi venuti da fuori ed è palpabile la richiesta urgente di un accesso più democratico alla cultura. 


Basti pensare ancora a Here. now. where? un bel progetto uscito dalla fucina di Saout Radio. Con il coinvolgimento di dieci tassisti di Marrakech e la chiamata alle armi di numerosi sound artist internazionali, Anna Raimondo e Younes Baba Ali hanno strutturato un programma di ascolto in movimento.

 

Prendi un taxi - lo riconosci da un bollino verde sul lunotto posteriore - e parti alla scoperta di paesaggi sonori immaginari, reali, lontani. Dal finestrino scorrono veloci i profili di Marrakech, i motorini MBK, i marciapiedi brulicanti di persone, mentre in auto parte la prima traccia e dalle casse mezze sfondate esce prima Five Beijing Sounds di Peter Cusack, poi Monday Morning in Lagos di Emeka Ogboh. Intanto i tassisti dicono di perdersi in questi suoni sconosciuti. Uno assicura che sono due giorni che sogno a occhi aperti.

 



O ancora si ricordi Sounding Maps and Underlying Melodies, un programma di musica curato da Clara Meister e disseminato in diversi luoghi nella Medina. Un calendario rintracciabile su una mappa ambigua, che asseconda la deriva, in cui non esistono indirizzi ma che usa le strategie del racconto, la perifrasi ad esempio, per arrivare laddove l’arte contemporanea non riesce, al cuore di quel groviglio di strade e piazze che sono il palcoscenico primario e originario della musica: lo spazio pubblico, lo spazio della condivisione. Cerchiamo ad esempio i musicisti Ahmed Khoudnichi e Youssef Elmezrioui e li troviamo suonare nell’industrious triangle passage to Bab Doukkala with a pause at a palmtree.

 

 

Sounding Maps and Underlying Melodies ha offerto una diversa opportunità di ascolto: frastornati dalla schizofrenia sonora della città, ascoltiamo il canto corale del Chour des Mamas Douées riempire un cortile interno vicino a Dar Bellarj, Si Mohamed Soudani che suona nella fornace del suo hammam, e impariamo a riconoscere quei corpi per quello che sono, archivi viventi di conoscenza. Ascoltare - sintonizzarsi (concentrarsi su un suono) - diventa la giusta metafora per un diverso coinvolgimento, quello soggettivo dell’incontro, e per un diverso spazio, quello dell’attenzione. 


Ed è dall’ascolto delle traiettorie sonore di Courtyard Ornamentation with Sounding Dots and a Prison, di Cevdet Erek che si scoprono le nuove frontiere dell’invisibile, la forza delicata del suono che occupa uno spazio esterno di Palais Badii convincendoci che non avrebbe potuto essere altrimenti. Nell’area delle ex prigioni del Palazzo, costruito da Ahmad al-Mansur al-Dhahabi nel 1578, otto casse emettono, a diverse velocità, un suono percussivo ripetitivo, tac tac tac, tactactactac. L’esperienza dell’ascolto è frammentaria fino a quando non si raggiunge un punto centrale del cortile. Lì, gli otto flussi sonori si incontrano orchestrando una partitura ritmica sostenuta, che risuona in parte con il canto delle cicogne - che qui hanno casa in inverno - e che con un gesto minimo che potrebbe perdersi nel frastuono della città, sembra invitare a una danza privata con lo spazio circostante. Un bellissimo lavoro.

Katerina Zdjelar, Into the interior (The last day of the permanent exhibition), still da video, Biennale di Marrakech, 2014.



E ancora, a voler parlare di identità e cambiamento, Katerina Zdjelar racconta lo smantellamento della memoria coloniale del Belgio, ritraendo - nel video a doppio canale Into the interior (the last day of the permanent exhibition) - le frizioni tra narrazione coloniale e l’immaginario esotico dell’Africa - quello dipinto dai paesaggisti belgi negli anni Cinquanta del Novecento - e la temporanea chiusura del The Royal Museum for Central Africa con la dispersione della sua collezione composta da migliaia di trofei animali provenienti dai territori oltremare. 

In To Leave, un video di Hamza Halloubi in mostra alla Banca Al Maghrib è uno stato di transizione - quello della partenza - a dirci a che punto siamo. In fuga da, alla ricerca di, o semplicemente in movimento, incapaci di dire univocamente quale sia la nostra posizione nel mondo. 

Where are THEY now? ovvero Dove sono gli artisti marocchini?


Elisa Pierandrei, arabista, giornalista e profonda conoscitrice di questa regione ci spiega come - nonostante Casablanca batta ancora la via con una scena underground molto interessante - Marrakech stia affiancando Beirut nello scenario artistico della regione, soprattutto a causa della confinante drammatica situazione siriana.
A Marrakech si rimane stupiti di fronte all’ESAV, l’École Superieure des Arts Visuels, un edificio bianco con il prato all’inglese in un bel quartiere residenziale a nord della città. Una volta entrati si scoprono aule modernissime a disposizione di pochi studenti. Non ci sorprende, visto che la retta annuale è di circa 5000 €. 



Che anche a Marrakech si sia affermata un’economia della conoscenza sul modello occidentale? Forse è un caso, ma calza a pennello che l’ESAV ospiti la mostra If you are so smart why ain’t you rich,‎ curata da Bonaventure Soh Bejeng Ndigung e Pualine Doutreluingne. Se lo chiedeva negli anni Settanta il compositore afro-americano Julius Eastman, se sei così intelligente perché non sei ricco? Se lo chiedono oggi i due curatori, a partire dal dibattito attuale sull’ecologia delle conoscenze, sul rapporto tra sapere e ricchezza nella società digitale e post industriale. Se lo chiedono con una mostra che parla soprattutto il linguaggio del suono, quello tangibile e oggettuale delle installazioni di Zouheir Atbane e Giles Aubry, di Emeka Ogboh, di Brandon Labelle e molti altri. 

 



Where are WE now? siamo dislocati, affaticati, estasiati dall’eccessiva, ipnotica, rumorosa Marrakech, una città indifferente alle nostre politiche del silenzio, una città dove l’invisibile domina lo spazio fisico, il corpo, la mente. Travolti dalla carovana europea che flirta ancora con il suo passato coloniale, rintanata nei riad, adulata dai tè nel deserto. Come scrive Alya Sebti “the Marrakech Biennale’s strenght lies in instability” ma ci vuole forse più coraggio per tenere il passo, per trovare un più vivace interstizio tra l’ancoraggio al locale e lo scambio internazionale. 

 

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